Studi sul suono in ordine alfabetico per autore
F. Acca, Scott Gibbons: l’essenza organica del suono
Scott Gibbons, compositore statunitense di musica elettronica, è noto alla comunità teatrale per il lavoro svolto insieme alla Socìetas Saffaello Sanzio. A partire da Genesi: from the museum of sleep (1999), il suo nome ha affiancato costantemente il percorso artistico della compagnia, fino al titanico progetto triennale della Tragedia Endogonidia (2002-2004), compreso l’omonimo ciclo filmico realizzato da Cristiano Carloni e Stefano Franceschetti.
Tuttavia, quella tra Gibbons e la Socìetas è decisamente qualcosa di più di una semplice “collaborazione”, ponendosi ad un livello maggiormente complesso di creazione. Nell’arco di questo incontro non si è trattato di mettere a punto un oggetto che interagisse ritmica- mente o melodicamente con la composizione scenica, bensì un universo “sonico” stratificato, che direttamente ne ha creato la sostanza drammatica. Le elaborazioni di Gibbons sembra- no, infatti, essere la precisa trasposizione sonora di quel formidabile processo creativo che da tanti anni vede impegnato il gruppo cesenate. E in questa relazione così intima, ha trovato la sua specifica identità artistica.
Bisogna però ricordare che il lavoro svolto insieme a Romeo Castellucci è solo un singolo aspetto dell’arte di Scott Gibbons. Egli infatti è noto nel panorama musicale internaziona- le per la particolare originalità con cui ha indagato i mondi acustici della natura, attraver- so l’uso di nuove tecnologie audio. Sempre alla ricerca di una definita essenzialità, le sue composizioni divengono corpi sonori, onde pulsanti o architetture elettroacustiche capaci di violentare i margini auditivi dell’ascoltatore, divenendo vere e proprie sculture di suo- no. Alle quali peraltro corrisponde spesso anche una particolare essenza performativa, ov- vero la disponibilità del suono a farsi azione fisica, a incidere direttamente sull’emotività muscolare dell’ascoltatore e a trascinare con sé l’idea di una spazializzazione teatrale. Nel dicembre del 2004, nell’ambito del progetto CIMES “Il suono del Teatro”, Gibbons è stato protagonista di un seminario dal titolo “La drammaturgia del suono”, durante il quale il musicista ha ripercorso la propria vicenda artistica, attraverso un generoso dialogo con i partecipanti. La sintesi che ne diamo di seguito corrisponde a un documento per certi versi eccezionale nel panorama critico intorno alla sua opera, che chiarisce le diverse intersezioni tra i principi sonici e performativi di un viaggio assolutamente unico nella sua autenticità. Un ringraziamento particolare va a Rossella Mazzaglia per la traduzione dall’inglese, e a Fabio Regazzi per la competente assistenza tecnica e a Tomas Kutinjac per la trascrizione.
F. Acca, Scott Gibbons: l’essenza organica del suono
L‟immersione è una modalità cognitiva basata sulla sensazione, reale o virtuale, di trovarsi in un ambiente e farne parte, esservi immerso. Si tratta di una categoria basilare nelle definizioni di specifici generi artistici e commerciali, come la virtual art (Popper 2007, Grau 2003) e il videogioco (Lehto 2009, McMahan 2003), caratteristica chiave in concetti come mul- timedia (Packer – Jordan 2001) e „arti multimediali digitali‟ (Balzola – Monteverdi 2004, pp. 13-14), di recente interpretata quale fondamento per comprendere gli attuali sviluppi delle forme di fruizione audiovisiva (Rose 2011) e analizzata in relazione allo sviluppo delle arti sonore (Dyson 2009). L‟immersione è finalizzata al coinvolgimento del fruitore nell‟opera, all‟interno del suo spazio, come parte di esso; l‟opera immersiva ambisce a costruire un rapporto non mediato con il fruitore (Bolter – Grusin 1999), dandogli l‟illusione di appartenere al proprio mondo. L‟immersione fran- tuma la cornice che separa il mondo dell‟opera da quello del fruitore.
Anonimo, MEMORIA VOCALE. Ho sempre fatto molta attenzione a come…
Puoi descriverne le proprietà? Non importa se siano vere.
Pensare, studiare, dar rilievo alla vocalità coinvolge anche la sfera privata e soggettiva, la propria voce e le voci che tratteniamo, che sono inscritte nella nostra memoria e nell’ immaginazione. Da questa semplice osservazione nasce l’idea di intraprendere una indagine del tutto libera da schemi “sociologici” o da intenti scientifici ( comprovare una tesi, etc.). Semplicemente chiedere alle persone che abbiamo intorno di soffermarsi a pensare: quali sono le voci di cui conservo una memoria, che riesco a riascoltare? Come potrei descriverle?
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M. Belpoliti, Intervista video a Ermanna Montanari
M. Bicocchi, MEMORIA VOCALE. Mio nonno
Puoi descriverne le proprietà? Non importa se siano vere.
Pensare, studiare, dar rilievo alla vocalità coinvolge anche la sfera privata e soggettiva, la propria voce e le voci che tratteniamo, che sono inscritte nella nostra memoria e nell’ immaginazione. Da questa semplice osservazione nasce l’idea di intraprendere una indagine del tutto libera da schemi “sociologici” o da intenti scientifici ( comprovare una tesi, etc.). Semplicemente chiedere alle persone che abbiamo intorno di soffermarsi a pensare: quali sono le voci di cui conservo una memoria, che riesco a riascoltare? Come potrei descriverle?
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A. Cava, Ascoltare la scena – Intervista a Valentina Valentini
Com’è nato il progetto “La dimora delle voci femminili”?
La vocalità femminile è un filone della più ampia ricerca sul suono, ma non è assolutizzante; è piuttosto legato all’idea che la vocalità delle donne abbia un potere particolare, un richiamo che si imprime in modo più potente. Quindi, più o meno consciamente, al di là delle ideologie, si è attratti dalla voce femminile.
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C. Davis, Distant Ventriloquism: Vocal Mimesis, Agency and Identity in Ancient Greek Performance
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H. Finter, Love for Letters or Reading as Performance: Carmelo Bene’s Lectura Dantis
Very pleased to present to the Faculty of Arts and Literature a research topic, I want to speak about an issue which may concern both – literary studies and theatre studies. I shall discuss a type of performance which in recent years has become more and more popular and is now an integral part of many theater programs in Europe: the reading of great texts of national literatures by professional readers, actors or theatre directors.
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H. Finter, Voci soffiate, voci rubate, voci intervocali nel nuovo teatro americano
Il rifiuto iniziale di questo teatro come “freddo” o “tecnologico” teneva conto della sfida lanciata da questo triplice corpo alla rappresentazione teatrale. Secondo la convenzione allora dominante, la voce dell’attore aveva il compito, di rendere verosimile il legame fra il testo assente e il suo corpo presente per rendere verosimile l’incarnazione di un testo; in altre parole, l’attore doveva garantire colla sua voce una finzione che originava il testo, assente, nel corpo presente. È quest’orizzonte d’attesa che fu in primo deluso dal nuovo teatro americano. Ma nello spesso tempo apriva lo spettatore a una nuova esperienza sensibile, incitandolo a esplorare la relazione fra percezione visiva e percezione auditiva: il raddoppiamento vocale della triplice figura: corpo fisico visivo,corpo del testo assente, corpo sonoro vocale, proponeva, infatti, a riflettere sull’atopia della voce intanto entre-deux, fatto intermedio fra corpo e linguaggio, secondo il termine del psicanalista francese Guy Rosolato. Un ascolto del terzo tipo, diretto né verso il senso, né verso la pura sonorità, ma in sospeso, era chiesto. Doveva permettere allo spettatore di rendersi conto di una moltitudine d’immagini sonore fra voce del testo, gridi e canti, fra testi e corpo. Lo spettatore poteva godere di uno spazio sonoro, di cui ogni emissione vocale proiettava origini virtuali. La voce sentita non era più soltanto quella di un testo proferito, ma anche quella di una pluralità di corpi vocali di cui lo spettatore poteva tessere relazioni o legami potenziali con i corpi fisici presenti sulla scena. Il personaggio divenuto proiezione di un soggetto in processo, allo spettatore stesso era dato il compito di riflettere a ciò che determinava la sua percezione propria: il desiderio di guardare, il desiderio di ascoltare e il desiderio di fare coincidere lo sguardo e l’ascolto in una parola, in un personaggio.
Così, col teatro di Robert Wilson, di Richard Foreman, di Lee Breuer, cogli opera di Meredith Monk o di Robert Ashley, e più tardi colle performances di Laurie Anderson e del Wooster
Group, la teatralità della voce aveva fatto interruzione nella scena degli anni settanta. Durante un tempo abbastanza lungo, questo fatto restava inosservato, poiché ancora molti anni, la recezione di questo teatro si faceva soltanto col solo aspetto visivo, di cui testimonia il termine di theatre of images di Bonnie Maranca.
Quest’oblio era ancora più sorprendente visto il contesto, in cui questo teatro teatralizzava la voce fra corpo e linguaggio per sovvertire le convenzioni del personaggio, del luogo, del tempo e dell’ azione: Era un contesto della riflessione sul attore, dominato però solo dalle esperienze del gioco fisico: l’espressione del corpo doveva allora autentificare la sua presenza.
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H. Finter, La voce atopica: presenza dell’assenza
A partire dall’esperienza vocale di Antonin Artaud, il lavoro sulla voce nel teatro si è indirizzato a cercare ciò che manifesta la presenza del corpo in una voce. A partire dagli anni ’70 però, l’utilizzo di media come il Microport, gli altoparlanti e più tardi i sound computer, i vocoder o i sampler – contribuiva invece a radicalizzare la rappresentazione dell’alterità che appartiene alla voce e alla parola: separando l’emissione della voce dal corpo stesso dell’attore è messa in crisi l’unità del personaggio. Ma Artaud, già prima dell’intervento di qualunque apparecchiatura tecnica, ci aveva fatto comprendere tale separazione, grazie al lavoro sull’intervocalità che suggeriva di ricevere la voce a teatro come sempre già altro, plurale e senza un luogo definito, per cui si distingueva dalla dimensione virtuosistica dell’intervocalità attoriale. Mentre questi facevano comprendere la molteplicità delle voci della scrittura assumendo le parole secondo una verosimiglianza vocale, l’Artaud polilogo iniettava corpo in una scrittura che per la sovrapposizione di voci -parole, ne proiettava una utopia come rapporto ad altrettante voci e parole soffiate.
L’intervento di un apparecchio tecnico rendeva la voce straniata tanto quanto la parola: separandola dal corpo visibile sulla scena smontava la verosimiglianza del legame fra corpo e linguaggio e con questo la rappresentazione del personaggio in scena. Oggi noi assistiamo ogni giorno, a una generalizzazione, manovrata dal commercio, di voci prive di qualsiasi sostegno di presenza fisica: sono infatti registrate o trasmesse con tecniche di telecomunicazione. Se l’intrusione di queste voci poteva ancora suscitare delle impressioni di una umheimlich di cui testimoniano alcuni testi della fine del XIX e dell’inizio del XX – ad esempio Jarry, Kafka o Benjamin – la voce senza corpo fisico ha, da qualche decennio, invaso il nostro quotidiano con gli eredi digitalizzati della telefonia, del grammofono, della radio, del magnetofono ecc. Noi dialoghiamo con queste voci, le sentiamo e le ascoltiamo, seguiamo le loro raccomandazioni nelle nostre attività di tutti i giorni, per esempio in macchina con i GPS.
Ci siamo adattati all’assenza fisica della presenza vocale. Se conoscessimo le persone che emettono o hanno emesso queste voci, esse sorgerebbero davanti ai nostri occhi interiori anche con il loro corpo fisico, oppure noi conferiamo alle voci sconosciute un’immagine corporea secondo delle regole implicite di probabilità e di verosimiglianza, secondo il loro corpo vocale. Quindi gestiamo ogni giorno senza problemi l’assenza fisica di un portatore di voce, sostituendogli immaginariamente un’immagine corporea derivante dalla presenza del suono e del tono e della prosodia di quella voce.
Questo fenomeno della ricezione di una voce registrata o telecomunicata è abbastanza vicino a quello della ricezione della voce della scrittura. Se abbiamo frequentato da vivi alcuni scrittori o sentito semplicemente le loro voci registrate – come quelle di Gertrude Stein, Marguerite Duras o di Heiner Müller per esempio – quando leggiamo i loro scritti, possiamo sentire la loro voce allo stesso modo che quella delle lettere dei nostri parenti e amici. Per coloro cui tale frequentazione vocale manca, è lo stile degli scritti che ci fa immaginariamente sentire le loro voci.
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M. Giacobbe Borelli, L’uomo sonaglio
di Maia Giacobbe Borelli
Le Son Du Théâtre, vers une histoire sonore du théâtre ( XiX-XX siecles): acustiques et auraralités è un convegno che si è svolto a Montréal dal 21 al 25 novembre 2012, . promosso dal Lab EX TransferS, Paris CNRS e dall’Università di Montréal..
Moltissimi i temi che vanno a convogliare nella necessità di costruire una storia del suono nel teatro a partire dall’800 e di elaborare un glossario relativo a questo campo di ricerca. Per avere una idea dei temi toccati è utile consultare il sito ( www.lesondu théâtre.com).
Drammaturgie sonore.Teatri del secondo Novecento, è un volume, a cura di Valentina Valentini
da qualche settimana in libreria (Bulzoni editore, Roma, 30 euro,pp. 452) che esplora la componente sonora e vocale dello spettacolo teatrale, un campo di studi poco praticato, come si evince dalla ricognizione degli studi nel saggio introduttivo I suoni del teatro . . Sia negli interventi al convegno di Montréal che nel volume ci si interroga sulle ragioni che hanno fatto del suono – un campo interdisciplinare ( i Sound Studies) – una zona rimossa degli studi teatrali Nonostante che la produzione di spettacoli in cui il suono e la voce hanno un ruolo drammaturgico sia un fenomeno che si avvia con le avanguardie storiche e si afferma con il nuovo teatro, questi percorsi , all’interno della storia del teatro , sono ancora da ricostruire e analizzare: dal Suono Giallo di Kandinskij, alla voce registrata ne L’ultimo nastro di Krapp di Samuel Beckett, 1958, a Insulti al pubblico di Peter Handke, 1966) a Stifter Dinge di Heiner Goebbels, 2007, per citarne alcuni.
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A. Grano, MEMORIA VOCALE. Il suono. Le voci.
Puoi descriverne le proprietà? Non importa se siano vere.
Pensare, studiare, dar rilievo alla vocalità coinvolge anche la sfera privata e soggettiva, la propria voce e le voci che tratteniamo, che sono inscritte nella nostra memoria e nell’ immaginazione. Da questa semplice osservazione nasce l’idea di intraprendere una indagine del tutto libera da schemi “sociologici” o da intenti scientifici ( comprovare una tesi, etc.). Semplicemente chiedere alle persone che abbiamo intorno di soffermarsi a pensare: quali sono le voci di cui conservo una memoria, che riesco a riascoltare? Come potrei descriverle?
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Gruppo Acusma, V. Valentini, M. Reggio, M. Petruzziello, W. Paradiso, Ora non hai più paura – Domande del Gruppo àcusma
1. Lo spettacolo Ora non hai più paura fa parte della Trilogia della gioia. Quando siete andati a comporre la partitura vi è stato richiesto di attenervi al tema? E allora quali sono i suoni che esprimono gioia, secondo voi? Da quale tipo di qualità sono caratterizzati? Esiste un “timbro” della gioia o un “suono” della gioia? (M.P.)
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F. Kennedy, The Challenge of Theorizing the Voice in Performance
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T. Mc Allister-Viler, Reconsidering the Role of Breath in Training Actors’ Voices: Insights from Dahnjeon Breathing and the Phenomena of Breath
Link
L. Mills, When the Voice Itself Is Image
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E. Montanari, Dismisura
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E. Montanari, E mi paes
ermanna-montanari-e-mi-paes-2011
E. Montanari, OGGETTI D’INFANZIA – Cancello
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E. Montanari, Campiano
F. Nicolodi, Note sul teatro di Luciano Berio
GIUSEPPE BARTOLUCCI “Il linguaggio del presente”
RAIMONDO GUARINO “Lo spazio del dire. Cortigiani, umanisti, volontà di teatro e sistema della commedia”
ANNA MARIA PEDULLA’ “Serve la semiotica al pensiero teatrale?”
M. Petruzziello, Conversazione di Mauro Petruzziello con Fibre Parallele
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M. Petruzziello, Conversazione di Mauro Petruzziello e Enrico Castellani – Babilonia Teatri
Babilonia Teatri nasce nel 2006 dall’incontro fra Enrico Castellani e Valeria Raimondi. Il loro primo lavoro, Panopticon Frankestein (2006) è stato finalista al Premio Scenario Infanzia. Gli spettacoli successivi, fra i quali Underwork (2007); Made In Italy (2007), vincitore del Premio Scenario; Pornobboy (2009), accanto a una serie di suoni che arrivano direttamente dall’orizzonte della musica pop, mettono in scena una parola detta in modo stentoreo, ritmico e apparentemente privo di coloriture, che diviene cifra stilistica della compagnia. Con The End (2011), feroce riflessione sulla morte affidata alla sola voce di Valeria Raimondi, e il suo successivo spin-off The Rerum Natura, Babilonia Teatri inizia una riflessione più profonda sul dire, pur non negando una continua tensione all’orizzonte pop. Il loro ultimo spettacolo, Pinocchio (2012), vede in scena tre “non-attori”, tutti usciti dall’esperienza del coma. Il loro prossimo lavoro, che debutterà al Napoli Teatro Festival 2013, sarà una personale rilettura del romanzo Lolita di Nabokov.
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M. Petruzziello, Sovrascrivere le immagini. Conversazione con Daniel Blanga Gubbay – Pathosformel
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G. Piana, Filosofia della musica
Non possiamo fare a meno di notarlo: la musica del nostro secolo che così spesso ha meritato e vantato, secondo le più varie formulazioni e accentuazioni, soprattutto il suo essere nuova è ormai diventata, nell’ineluttabilità del tempo che passa, la musica di un secolo che ora volge al suo termine. Fra non più di una decina d’anni avremo tutti i diritti di rivolgerci ad essa con quel senso di passato che viene realmente avvertito forse soltanto quando possiamo parlare riferendoci al secolo scorso, per quanto un simile schema temporale possa essere ritenuto arbitrario e irrilevante.
Ma richiamare l’attenzione su questa circostanza non vuole affatto essere la premessa, peraltro inconsistente, per un discorso sull’invecchiamento, ma al contrario per fissare questa novità come una delle caratteristiche interne della musica novecentesca. Di essa è del resto possibile fornire un’interpretazione che ha ben poco a che vedere con la dimensione puramente temporale, con l’avvicendarsi del vecchio al nuovo.
Gettiamo dunque uno sguardo d’insieme, già installati nel secolo appena futuro, alla musica del secolo XX. E allora avremmo forse ragione di notare: al di là della grande complessità intrinseca delle vie intraprese, della differenza dei progetti e dei pensieri che stanno alla loro base, vi sono certamente tratti comuni che in qualche modo sono in grado di tipicizzare la vicenda musicale novecentesca, ed a questo proposito proprio il parlare di novità coglie nel segno.
Tuttavia occorre subito precisare: parlando di novità come una caratteristica della musica novecentesca, non vogliamo semplicemente ribadire ciò che essa ha continuato a dire ed a ridire di se stessa, ma vogliamo piuttosto, e qui naturalmente i termini e il senso del problema mutano profondamente, cogliere un atteggiamento verso il nuovo come un atteggiamento peculiare, che caratterizza la musicalità novecentesca, il modo d’essere del Novecento nella musica e per la musica.
Certo, siamo consapevoli di come sia arrischiata già la stessa pretesa di rintracciare qualcosa di simile a dei tratti caratteristici e come si possa, nel tentare di soddisfare questa pretesa, pervenire a formulazioni che possono apparire astratte e ben poco significative. Eppure abbiamo la sensazione che, annoverando tra essi l’atteggiamento verso il nuovo, non si abbia a che fare con una vuota generalità, ma con uno dei punti di vista che possono essere utilmente assunti per vedere da una diversa angolatura cose mille volte già viste, cominciando a scorgere problemi ricchi di senso e difficoltà inavvertite.
Intanto dobbiamo essere in grado di afferrare tutto ciò che si chiama realmente in causa chiamando in causa il nuovo è nuovo ciò che non appartiene alla cerchia delle cose familiari e note, andare verso il nuovo significa in qualche modo allontanarsi da casa, addentrarsi in un paese straniero. Novità vuol dire dunque anche estraneità, differenza, sradicamento e viaggio. Perciò non è affatto interessante chiedersi se e quando vi sia stata novità nella musica novecentesca, domanda che diventerebbe forse ben presto oziosa, quanto riconoscere in essa un’esigenza fondamentale che la caratterizza in profondità. Ovunque, nelle più diverse e diversamente motivate proposte musicali, sembra potersi applicare l’immagine di un cerchio come delineazione di un confine che deve essere oltrepassato. Ovunque si scorgono limitazioni, barriere che ci stringono da ogni parte e che esigono di essere superate, e proprio in esse consiste il vecchio a cui si contrappone il nuovo, nell’abbattimento di queste barriere consiste soprattutto l’innovazione.
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M. Righetti, MEMORIA VOCALE. Le voci che ricordo
Puoi descriverne le proprietà? Non importa se siano vere.
Pensare, studiare, dar rilievo alla vocalità coinvolge anche la sfera privata e soggettiva, la propria voce e le voci che tratteniamo, che sono inscritte nella nostra memoria e nell’ immaginazione. Da questa semplice osservazione nasce l’idea di intraprendere una indagine del tutto libera da schemi “sociologici” o da intenti scientifici ( comprovare una tesi, etc.). Semplicemente chiedere alle persone che abbiamo intorno di soffermarsi a pensare: quali sono le voci di cui conservo una memoria, che riesco a riascoltare? Come potrei descriverle?
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R. Savo, MEMORIA VOCALE. Voce di una nonna
Puoi descriverne le proprietà? Non importa se siano vere.
Pensare, studiare, dar rilievo alla vocalità coinvolge anche la sfera privata e soggettiva, la propria voce e le voci che tratteniamo, che sono inscritte nella nostra memoria e nell’ immaginazione. Da questa semplice osservazione nasce l’idea di intraprendere una indagine del tutto libera da schemi “sociologici” o da intenti scientifici ( comprovare una tesi, etc.). Semplicemente chiedere alle persone che abbiamo intorno di soffermarsi a pensare: quali sono le voci di cui conservo una memoria, che riesco a riascoltare? Come potrei descriverle?
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S. Sontag, The aesthetics of silence
The activities of the painter, the musician, the poet, the dancer et al, once they were grouped together under that generic name (a relatively recent move), have proved to be a peculiarly adaptable site on which to stage the formal dramas besetting consciousness, each individual work of art being a more or less astute paradigm for regulating or reconciling these contradictions. Of course, the site needs continual refurbishing. Whatever goal is set.
The scene changes to an empty room. Rimbaud has gone to Abyssinia to make his fortune in the slave trade. Wittgenstein has first chosen schoolteaching, then menial work as a hospital orderly. Duchamp has turned to chess. And, accompanying these exemplary renunciations of a vocation, each man has declared that he considers his previous achievements in poetry. philosophy, or art as trifling, of no importance. But the choice of permanent silence doesn’t negate their work. On the contrary, it imparts retroactively an added power and authority to what was broken off; disavowal of the work becoming a new source of its validity, a certificate of unchallengeable seriousness. That seriousness consists in not regarding art (or philosophy practiced as an art form: Wittgenstein) as something whose seriousness lasts forever, an “end,” a permanent vehicle for spiritual ambition. The truly serious attitude is one that regards art as a “means” to something that can perhaps be achieved only by abandoning art; judged more impatiently, art is a false way or (the word of the Dada artist Jacques Vaché) a stupidity.
Though no longer a confession, art is more than ever a deliverance, an exercise in asceticism. Through it, the artist becomes purified — of himself and, eventually, of his art, The artist (if not art itself) is still engaged in a progress toward “the good.” But formerly, the artist’s good was mastery of and fulfillment in his art. Now it’s suggested that the highest good for the artist is to reach that point where those goals of excellence become insignificant to him, emotionally and ethically, and he is more satisfied by being silent than by finding a voice in art. Silence in this sense, as termination, proposes a mood of ultimacy antithetical to the mood informing the self-conscious artist’s traditional serious use of silence: as a zone of meditation, preparation for spiritual ripening, an ordeal which ends in gaining the right to speak. (Cf. Valery, Rilke) So far as he is serious, the artist is continually tempted to sever the dialogue he has with an audience.
Silence is the furthest extension of that reluctance to communicate, that ambivalence about making contact with the audience which is a leading motif of modern art, with its tireless commitment to the “new” and/or the “esoteric” Silence is the artist’s ultimate other-worldly gesture; by silence, he frees himself from servile bondage to the world, which appears as patron, client, audience, antagonist, arbiter, and distorter of his work.
Still, in this renunciation of “society,” one cannot fail to perceive a highly social gesture. Some of the cues for the artist’s eventual liberation from the need to practice his vocation come from observing his fellow artists and measuring himself against them. An exemplary decision of this sort can be made only after the artist has demonstrated that he possesses genius and exercised that genius authoritatively. Having already surpassed his peers, by the standards which he acknowledges, pride has only one place left to go. For, to be a victim of the craving for silence is to be, in still a further sense, superior to everyone else. It suggests that the artist has had the wit to ask more questions than other people, as well as that he possesses stronger nerves and higher standards of excellence. (That the artist can persevere in the interrogation of his art until he or it is exhausted isn’t in doubt. As René Char has written, “No bird has the heart to sing in a thicket of questions”)
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V. Valentini, La voce scomparsa: la recitazione di Eleonora Duse nelle tragedie di Gabriele D’Annunzio
Proviamo a raccogliere tracce e indizi che ci permettano di formarci un’idea sulla vocalità di un’attrice come Eleonora Duse, in un periodo circoscritto alle sue interpretazioni dannunziane. La loro messa in scena rappresenta un punto di crisi nell’assetto del teatro italiano di fine Ottocento, un’apertura verso le avanguardie europee, un tentativo di ripensare il sistema dei ruoli e, in particolare, una trasformazione radicale della recitazione dell’attrice.
Non disponendo di documenti sonori, oltre ai documenti diretti, come i copioni annotati dall’attrice, e indiretti (recensioni e testimonianze che riguardano le performance vocali della Duse dannunziana), fondamentale è inscrivere la vocalità dell’attrice in un quadro di raffronti più ampio: confrontare le prescrizioni dei trattati di recitazione dell’epoca, le teorie elaborate su tali questioni in ambito filosofico, linguistico, musicale, antropologico, a partire dal testo drammatico, analizzando le parti dialogiche-discorsive, oltre che le didascalie, un territorio certamente più familiare agli studiosi di teatro.
Potremmo scoprire quanto spazio occupa il tema della voce nelle pagine dedicate all’attrice dai suoi biografi, recensori di professione, da chi l’ha conosciuta in scena e ha lasciato una testimonianza della sua arte di attrice. Come è stata immaginata e descritta la voce dei personaggi femminili nei testi su di lei modellizzati (le tragedie dannunziane). Quali indicazioni sul ritmo e sulla scansione emergono dai copioni di scena annotati dall’attrice. In che modo i letterati, i poeti (tra gli altri, D’Annunzio, Hoffmansthal, Rilke), i musicisti, le nuove teorie estetiche, in quegli stessi anni affrontavano il tema della vocalità.
Siamo tuttavia consapevoli dei limiti che una tale indagine presenta: dal copione di Francesca da Rimini annotato dalla Duse si evincono il ritmo delle frasi e gli accenti, ma non siamo in grado di attingere ai tratti specifici della sua vocalità o ai modi dell’articolazione fonetica. Né riusciamo ad afferrare il rapporto fra gestualità e vocalità, né a capire in che rapporto sta la voce con il personaggio o di distinguere la voce di Francesca da quella di Anna. Le didascalie punteggiano e descrivono i toni in rapporto allo stato emotivo del personaggio, scandiscono le pause e i silenzi, ma non possiamo verificare se e in che modo queste prescrizioni siano state ottemperate, né attingere alle qualità della materia sonora vera e propria (che ha a che fare con altezza, timbro, intensità, volume). Non siamo in grado di scoprire come viene prodotta la voce (attraverso la gola, il diaframma), l’articolazione fonetica (il rapporto vocale-consonante, l’apertura o chiusura delle vocali, la scansione delle consonanti, la discontinuità e la fluidità del dire, i tratti sovrasegmentali). Nonostante questi limiti, confidiamo che l’analisi sul registro vocale apporti nuovi elementi alla conoscenza di Eleonora Duse, interprete dannunziana.
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V. Valentini, M. Reggio, I. Vinella, Domande per Marco Cavalcoli su 'HIM' dei Fanny & Alexander
Il nostro Mago di Oz ha le sembianze di Hitler, specialmente del piccolo Hitler inginocchiato raffigurato da Maurizio Cattelan nella sua opera Him. Tanto nei libri di Baum, quanto nel film di Fleming, il Mago è una figura ambigua, ingannatrice, un ciarlatano che, una volta smascherato, pretende di essere un buon uomo e un cattivo mago; ma che non ha esitato a mandare Dorothy e i suoi amici in una missione da lui creduta impossibile e mortale, l’uccisione della Strega dell’Ovest. Il nostro Hitler, come il Mago di Oz, suscita simpatia e qualche sorriso, così come suscita compassione l’Him di Cattelan finché non se ne scopre il volto hitleriano. Ed è con simpatia che lancia il suo incantesimo sugli astanti, comandandoli a bacchetta da vero autocrate, mentre si arroga il diritto di soppiantare tutti i personaggi in commedia in un’impossibile bulimia ventriloqua.
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V. Valentini, M. Petruzziello, I. Vinella, Conversazione di Julia Varley
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V. Valentini, Intervista a Cesare Ronconi
1 Mi interessa conoscere la fisionomia di chi compone/produce il suono negli / per gli spettacoli della Valdoca, le varie figure con cui hai lavorato sul suono.
cesare-ronconi-intervista-valentina-valentini
V. Valentini, Franco Scaldati
Presentazione di Valentina Valentini p. 7
Lucio di Franco Scaldati p.11
La locanda degli elfi, conversazione con Franco Scaldati, di Valentina Valentini p.117
Ritratti p.119
Angeli e assassini di Giuseppe Bartolucci p.141
Alla ricerca del cuore di Francesco Pititto p. 143
Calcinacci Minestici di Antonio Barbieri p. 145
Il giardino incantato: oltre la solarità e il lutto. Intorno alla drammaturgia di Franco Scaldati di Valentina Valentini p. 149
Teatrografia
Bigliografia
Videofilmografia
franco-scaldati-rubbettino-valentina-valentini-1997
V. Valentini, Far suonare le fiamme
valentina-valentini-suonare-fiamme-chiara-guidi-bambina-fiammiferi-2013
V. Valentini, Dimore dei suoni. Appunti dal laboratorio di drammaturgia sonora
I musicisti-compositori e sound-designer hanno attraversato le drammaturgie sonore di spettacoli, performance, installazioni realizzate all’interno della propria produzione grazie alle sollecitazioni e alle domande di Mauro Petruzziello, Ida Vinella, Romina Marciante, Cristina Reggio del Gruppo Acusma.
La paziente e feconda rielaborazione degli interventi live degli ospiti trova qui una forma mista, da leggere e ascoltare nello stesso tempo.
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I. Vinella, Il respiro che viene suonato – Intervista a Roberto Latini
Roberto.Latini. Ha un peso fondamentale nella misura in cui penso che la voce sia respiro che viene suonato e quindi la possibilità di interpretare e di vivere questi suoni aldilà del senso, oltre il senso e anche a prescindere dal senso. Considerarlo come suono è una condizione fondamentale.
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B. Viola, The Sound of One Line Scanning
Socrates
The ancient Greeks heard voices. The Homeric epics are full of instances of people guided in their thoughts and actions by an internal voice to which they respond automatically. This suggests as people, as Julian Jaynes has pointed out, not fully exercising what we would consider free will or rational judgment. As with most of us, there is a conversation going on in their heads, but it is not with themselves. Jaynes calls this distant mental landscape the ‘bicameral mind,’ and claims that, prior to the transition period of the Greeks, all ancient cultures were not fully conscious as we know it. In other words, they possessed many gods. Today we are suspicious of persons exhibiting such behaviors, forgetting that the term hearing refers to a kind of ‘obedience’ (the Latin roots of the word are ob plus audire, or ‘to hear facing someone’). So rooted is our need for the concept of the independent mind, that we categorize those hearing the voices as: a) mildly amusing, b) a pet, or c) confined to a mental institution. A possible fourth category might be ‘watching television.’ The prophets and gods have departed our world and the confused chatter in their wake must now be exorcized by someone called a “therapist.”
A woman named Be was alone in the bush one day in Namibia, when she saw a herd of giraffes running before an approaching thunderstorm. The rolling beat of their hooves grew louder and mingles in her head with the sound of sudden rain. Suddenly a song she had never heard before came to her and she began to sing. Gauwa (the great god) told her it was a medicine song. Be went home and taught the song to her husband Tike. They sang and danced it together. And it was, indeed, a song for trancing, a medicine song. Tike taught it to others who passed it on.
!Kung Bushman story from Botswana,
as told to Marguerite Anne Biesele.
Consciously or unconsciously, most people assume the existence of some sort of space when discussing mental functioning. Concepts and terms for manipulation of solid objects are constantly used to describe thoughts, as in “the back of my mind,” “grasp an idea,” “over my head,” “cling to beliefs,” “a mental block,” and so on. This mental space is directly analogous to the “data space” in our first brain child, the computer, being the field in which calculations occur and where the virtual objects of digital graphics are created, manipulated and destroyed. Like a fundamental ontology, this given space is perpetually before or after what is done, an a priori existence from birth in the flip of a switch until the lights finally go out. If there is a space of thinking, either real or virtual, then within it there must also be sound, forall sound seeks its expression as vibration in the medium of space. The acoustic properties of this space, then, becomes the subject of this article.
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