Studi sul suono

Studi sul suono in ordine alfabetico per autore

F. Acca, Scott Gibbons: l’essenza organica del suono

Nota introduttiva
Scott Gibbons, compositore statunitense di musica elettronica, è noto alla comunità teatrale per il lavoro svolto insieme alla Socìetas Saffaello Sanzio. A partire da Genesi: from the museum  of sleep (1999), il suo nome ha affiancato  costantemente  il percorso artistico della compagnia,  fino al titanico progetto triennale della Tragedia Endogonidia  (2002-2004),  compreso  l’omonimo ciclo filmico  realizzato  da Cristiano  Carloni  e Stefano Franceschetti.
Tuttavia,  quella tra Gibbons e la Socìetas è decisamente  qualcosa di più di una semplice “collaborazione”, ponendosi ad un livello maggiormente  complesso di creazione. Nell’arco di questo incontro non si è trattato di mettere a punto un oggetto che interagisse ritmica- mente o melodicamente con la composizione scenica, bensì un universo “sonico” stratificato, che direttamente ne ha creato la sostanza drammatica. Le elaborazioni di Gibbons sembra- no, infatti, essere la precisa trasposizione  sonora di quel formidabile  processo  creativo che da tanti anni vede impegnato  il gruppo cesenate. E in questa relazione così intima, ha trovato la sua specifica identità artistica.
Bisogna però ricordare che il lavoro svolto insieme a Romeo Castellucci è solo un singolo aspetto dell’arte di Scott Gibbons. Egli infatti è noto nel panorama musicale internaziona- le per la particolare originalità con cui ha indagato i mondi acustici della natura, attraver- so l’uso di nuove tecnologie audio. Sempre alla ricerca di una definita essenzialità,  le sue composizioni  divengono corpi sonori, onde pulsanti o architetture elettroacustiche capaci di violentare i margini auditivi dell’ascoltatore, divenendo vere e proprie sculture di suo- no. Alle quali peraltro corrisponde spesso anche una particolare essenza performativa,  ov- vero la disponibilità  del suono a farsi azione fisica, a incidere direttamente sull’emotività  muscolare dell’ascoltatore e a trascinare con sé l’idea di una spazializzazione teatrale. Nel dicembre del 2004, nell’ambito del progetto CIMES “Il suono del Teatro”, Gibbons è stato protagonista  di un seminario dal titolo “La drammaturgia  del suono”, durante il quale il musicista ha ripercorso la propria vicenda artistica, attraverso un generoso dialogo con i partecipanti. La sintesi che ne diamo di seguito corrisponde a un documento per certi versi eccezionale nel panorama critico intorno alla sua opera, che chiarisce le diverse intersezioni tra i principi sonici e performativi di un viaggio assolutamente unico nella sua autenticità. Un ringraziamento particolare va a Rossella Mazzaglia per la traduzione dall’inglese, e a Fabio Regazzi per la competente assistenza tecnica e a Tomas Kutinjac per la trascrizione.
F. Acca, Scott Gibbons: l’essenza organica del suono
G. Albert, Le forme dell’immersione tra Long Beach e Hollywood
1. Introduzione
L‟immersione è una modalità cognitiva basata sulla sensazione, reale o virtuale, di trovarsi in un ambiente e farne parte, esservi immerso. Si tratta di una categoria basilare nelle definizioni di specifici generi artistici e commerciali, come la virtual art (Popper 2007, Grau 2003) e il videogioco (Lehto 2009, McMahan 2003), caratteristica chiave in concetti come mul- timedia (Packer – Jordan 2001) e „arti multimediali digitali‟ (Balzola – Monteverdi 2004, pp. 13-14), di recente interpretata quale fondamento per comprendere gli attuali sviluppi delle forme di fruizione audiovisiva (Rose 2011) e analizzata in relazione allo sviluppo delle arti sonore (Dyson 2009). L‟immersione è finalizzata al coinvolgimento del fruitore nell‟opera, all‟interno del suo spazio, come parte di esso; l‟opera immersiva ambisce a costruire un rapporto non mediato con il fruitore (Bolter – Grusin 1999), dandogli l‟illusione di appartenere al proprio mondo. L‟immersione fran- tuma la cornice che separa il mondo dell‟opera da quello del fruitore.

Anonimo, MEMORIA VOCALE. Ho sempre fatto molta attenzione a come…
Quali sono le voci che ricordi? Quelle che sono rimaste nel tua mente come memoria e immaginario…
Puoi descriverne le proprietà? Non importa se siano vere.

Pensare, studiare, dar rilievo alla vocalità coinvolge anche la sfera privata e soggettiva, la propria voce e le voci che tratteniamo, che sono inscritte nella nostra memoria e nell’ immaginazione. Da questa semplice osservazione nasce l’idea di intraprendere una indagine del tutto libera da schemi “sociologici” o da intenti scientifici ( comprovare una tesi, etc.). Semplicemente chiedere alle persone che abbiamo intorno di soffermarsi a pensare: quali sono le voci di cui conservo una memoria, che riesco a riascoltare? Come potrei descriverle?
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M. Belpoliti, Intervista video a Ermanna Montanari
Abbiamo incontrato Ermanna Montanari, attrice romagnola e fondatrice del Teatro delle Albe, all’Elfo Puccini di Milano, in occasione della messa in scena de L’Avaro di Molière (Teatro delle Albe, regia di Marco Martinelli) per parlare del suo rapporto col dialetto, del suo approccio con il teatro e con quello dialettale in particolare, delle sue due Romagne.

M. Bicocchi, MEMORIA VOCALE. Mio nonno
Quali sono le voci che ricordi? Quelle che sono rimaste nel tua mente come memoria e immaginario…
Puoi descriverne le proprietà? Non importa se siano vere.

Pensare, studiare, dar rilievo alla vocalità coinvolge anche la sfera privata e soggettiva, la propria voce e le voci che tratteniamo, che sono inscritte nella nostra memoria e nell’ immaginazione. Da questa semplice osservazione nasce l’idea di intraprendere una indagine del tutto libera da schemi “sociologici” o da intenti scientifici ( comprovare una tesi, etc.). Semplicemente chiedere alle persone che abbiamo intorno di soffermarsi a pensare: quali sono le voci di cui conservo una memoria, che riesco a riascoltare? Come potrei descriverle?
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A. Cava, Ascoltare la scena – Intervista a Valentina Valentini
Valentina Valentini insegna Arti performative e Arti Elettroniche e digitali presso La Sapienza di Roma. Da anni porta avanti lo studio sulla dimensione sonora del teatro attraverso gruppi di ricerca, eventi e pubblicazioni. Uno dei suoi progetti riguarda la voce femminile, per il quale ha realizzato un archivio sonoro che ha avuto alcuni esiti performativi

Com’è nato il progetto “La dimora delle voci femminili”?
La vocalità femminile è un filone della più ampia ricerca sul suono, ma non è assolutizzante; è piuttosto legato all’idea che la vocalità delle donne abbia un potere particolare, un richiamo che si imprime in modo più potente. Quindi, più o meno consciamente, al di là delle ideologie, si è attratti dalla voce femminile.
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C. Davis, Distant Ventriloquism: Vocal Mimesis, Agency and Identity in Ancient Greek Performance
Did the ancient Greek actors alter their voices when called upon to play different characters in the same performance? Was it enough to signify emotion through intelligible words or the rhythmic and melodic requirements of the music? Since the relatively recent advent of performance-oriented approaches to Greek drama, these have become legitimate questions rather than merely reasons to despair.
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H. Finter, Love for Letters or Reading as Performance: Carmelo Bene’s Lectura Dantis
Lecture for the faculty of Arts and Literature at the University of Notre Dame Ind., April 12th, 2006
Very pleased to present to the Faculty of Arts and Literature a research topic, I want to speak about an issue which may concern both – literary studies and theatre studies. I shall discuss a type of performance which in recent years has become more and more popular and is now an integral part of many theater programs in Europe: the reading of great texts of national literatures by professional readers, actors or theatre directors.
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H. Finter, Voci soffiate, voci rubate, voci intervocali nel nuovo teatro americano
La venuta del nuovo teatro americano in Europa negli anni settanta,  che prima si vedeva in Francia, dove vivevo all’epoca, confrontava lo spettatore a figure di un tipo completamente nuovo: il corpo sublimato da luci sofisticate, degli esseri enigmatici si muovevano sulla scena con movimenti e gesti precisamente cifrati, emettendo, il viso impassibile, testi o sequenze di suoni, ovviamente privi di ogni legame con i loro azioni corporali. A questa separazione fra testo e azione, si aggiungeva una seconda: l’origine delle voci, separate dal corpo da un micro, era incerta. E presto, da partire della metà del decennio, saranno inoltre trasmesse da numerosi altoparlanti, distribuiti nella sala. Queste voci non erano  purtroppo, voci formate: ogni voce aveva il suo timbro, più o meno, appoggiato, il suo melòs proprio, accenti regionali o culturali. Un dire impersonale alternava così col canto e col grido. Tre corpi  erano allora  proietti  per una sola figura: un  corpo fisico visibile, trasfigurato dal design della luce e un doppio corpo invisibile che era quello di un testo soffiato emesso in modo neutro, e d’altra parte, quello sensibile che sorgeva dalla qualità sonora materiale della voce.
Il rifiuto iniziale di questo teatro come “freddo” o “tecnologico” teneva conto della sfida lanciata da questo triplice corpo alla rappresentazione teatrale. Secondo la convenzione allora dominante, la voce dell’attore aveva il compito, di rendere verosimile il legame fra il testo assente e il suo corpo presente per  rendere verosimile l’incarnazione di  un testo; in altre parole, l’attore doveva garantire colla sua voce una finzione che originava il testo, assente, nel corpo presente. È quest’orizzonte d’attesa che fu in primo deluso dal nuovo teatro americano. Ma nello spesso tempo  apriva lo spettatore a una nuova  esperienza sensibile, incitandolo a esplorare la relazione fra percezione visiva e percezione auditiva:  il raddoppiamento vocale della triplice figura: corpo fisico visivo,corpo del testo assente, corpo sonoro vocale, proponeva, infatti,  a riflettere sull’atopia della voce intanto  entre-deux, fatto intermedio fra corpo e linguaggio, secondo il termine del psicanalista francese Guy Rosolato. Un ascolto del terzo tipo, diretto né verso il senso, né verso la pura sonorità, ma in sospeso, era chiesto. Doveva permettere allo spettatore di rendersi conto di una moltitudine d’immagini sonore fra voce del testo, gridi e canti, fra testi e corpo. Lo spettatore poteva godere  di uno spazio sonoro, di cui ogni emissione vocale proiettava origini virtuali. La voce sentita non era più soltanto quella di un testo proferito, ma anche quella di una pluralità di corpi vocali di cui lo spettatore poteva tessere relazioni o legami potenziali con i corpi fisici presenti sulla scena. Il personaggio divenuto proiezione di un soggetto in processo, allo spettatore stesso era dato il compito di riflettere a ciò che determinava la sua percezione propria: il desiderio di guardare, il desiderio di ascoltare e il desiderio di fare coincidere lo sguardo e l’ascolto in una parola, in un personaggio.
Così, col teatro di Robert Wilson, di Richard Foreman, di Lee Breuer, cogli opera di Meredith Monk o di Robert Ashley, e più tardi colle performances di Laurie Anderson e del Wooster
Group, la teatralità della voce aveva fatto interruzione nella scena degli anni settanta. Durante un tempo abbastanza lungo, questo fatto restava inosservato, poiché ancora molti anni, la recezione di questo teatro si faceva  soltanto  col solo  aspetto  visivo, di cui testimonia il termine di  theatre of images di Bonnie Maranca.
Quest’oblio era ancora più sorprendente visto il contesto, in cui questo teatro teatralizzava la voce fra corpo e linguaggio per sovvertire le convenzioni del personaggio, del luogo, del tempo e dell’ azione: Era un contesto della riflessione sul attore, dominato però solo dalle esperienze del gioco fisico: l’espressione del corpo doveva allora autentificare la sua presenza.
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H. Finter, La voce atopica: presenza dell’assenza
Tecnologie e crisi della rappresentazione
A partire dall’esperienza vocale di Antonin Artaud, il lavoro sulla voce nel teatro si è indirizzato a cercare  ciò che manifesta la presenza del corpo in una voce. A partire dagli anni ’70 però, l’utilizzo di media come il  Microport, gli altoparlanti e più tardi i  sound computer, i  vocoder o i  sampler – contribuiva invece a radicalizzare la rappresentazione dell’alterità che appartiene alla voce e alla parola: separando l’emissione della voce dal corpo stesso dell’attore è messa in crisi l’unità del  personaggio. Ma Artaud, già prima dell’intervento di qualunque apparecchiatura tecnica, ci aveva  fatto  comprendere tale separazione, grazie al lavoro sull’intervocalità che suggeriva di ricevere la voce a teatro come sempre già altro,  plurale  e  senza un luogo definito, per cui si distingueva dalla dimensione virtuosistica dell’intervocalità attoriale. Mentre questi facevano comprendere la molteplicità delle voci della scrittura  assumendo  le parole secondo una verosimiglianza vocale, l’Artaud polilogo iniettava corpo in una scrittura che per la sovrapposizione di voci -parole, ne proiettava una utopia come rapporto ad altrettante voci e parole soffiate.
L’intervento di un apparecchio tecnico rendeva la voce straniata tanto quanto la parola: separandola dal corpo visibile sulla scena smontava la verosimiglianza del legame fra corpo e linguaggio e con questo la rappresentazione del personaggio in scena. Oggi noi assistiamo ogni giorno, a una generalizzazione, manovrata dal commercio, di voci prive di qualsiasi sostegno di presenza fisica: sono infatti registrate o trasmesse con tecniche di telecomunicazione. Se l’intrusione di queste voci poteva ancora suscitare delle impressioni di una umheimlich di cui testimoniano alcuni testi della fine del XIX e dell’inizio del XX – ad esempio Jarry, Kafka o Benjamin – la voce senza corpo fisico ha, da qualche decennio, invaso  il nostro quotidiano con gli eredi digitalizzati della telefonia, del grammofono, della radio, del magnetofono ecc. Noi dialoghiamo con queste voci, le sentiamo e le ascoltiamo, seguiamo le loro raccomandazioni nelle nostre attività di tutti i giorni, per esempio in macchina con i GPS.
Ci siamo adattati all’assenza fisica della presenza vocale. Se conoscessimo le persone che emettono o hanno emesso queste voci, esse sorgerebbero davanti ai nostri occhi interiori anche con il loro corpo fisico, oppure noi conferiamo alle voci sconosciute un’immagine corporea secondo delle regole implicite di probabilità e di verosimiglianza, secondo il loro corpo vocale. Quindi gestiamo ogni giorno senza problemi l’assenza fisica di un portatore di voce, sostituendogli immaginariamente un’immagine corporea derivante dalla presenza del suono e del tono e della prosodia di quella voce.
Questo fenomeno della ricezione di una voce registrata o telecomunicata è abbastanza vicino a quello della ricezione della voce della scrittura. Se abbiamo frequentato da vivi alcuni scrittori o sentito semplicemente le loro voci registrate – come quelle di Gertrude Stein, Marguerite Duras o di Heiner Müller per esempio – quando leggiamo i loro scritti, possiamo sentire la loro voce allo stesso modo che quella delle lettere dei nostri parenti e amici. Per  coloro  cui tale frequentazione vocale manca, è lo  stile degli scritti che ci fa immaginariamente sentire le loro voci.
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M. Giacobbe Borelli, L’uomo sonaglio
L’uomo sonaglio
di Maia Giacobbe Borelli
Le Son Du Théâtre, vers une histoire sonore du théâtre ( XiX-XX siecles): acustiques et auraralités è un convegno che si è svolto a Montréal dal 21 al 25 novembre 2012, . promosso dal  Lab EX TransferS, Paris CNRS  e dall’Università di Montréal..
Moltissimi i temi  che vanno a convogliare nella necessità di costruire una storia del suono nel teatro  a partire dall’800 e  di elaborare un glossario relativo a questo campo di ricerca.  Per avere una idea dei temi toccati è utile consultare il sito   ( www.lesondu théâtre.com).

Drammaturgie sonore.Teatri del secondo Novecento, è un volume, a cura di Valentina Valentini
da qualche settimana in libreria (Bulzoni editore, Roma, 30 euro,pp. 452) che esplora la componente sonora e vocale dello  spettacolo teatrale, un campo di studi poco praticato,  come si evince dalla ricognizione degli studi  nel saggio  introduttivo I suoni del teatro . . Sia negli interventi al convegno di Montréal che nel volume ci si  interroga sulle ragioni che hanno fatto del suono – un campo interdisciplinare ( i Sound Studies) –  una zona rimossa degli studi teatrali Nonostante  che la produzione di spettacoli in cui il suono e la voce hanno un ruolo drammaturgico sia  un fenomeno che si avvia con le avanguardie storiche e si afferma con il nuovo teatro,  questi percorsi , all’interno della storia del teatro , sono ancora da ricostruire e analizzare: dal Suono Giallo di Kandinskij, alla voce registrata ne L’ultimo nastro di Krapp  di Samuel Beckett, 1958, a Insulti al pubblico  di Peter Handke, 1966) a Stifter Dinge di Heiner Goebbels, 2007, per citarne alcuni.
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A. Grano, MEMORIA VOCALE. Il suono. Le voci.
Quali sono le voci che ricordi? Quelle che sono rimaste nel tua mente come memoria e immaginario…
Puoi descriverne le proprietà? Non importa se siano vere.

Pensare, studiare, dar rilievo alla vocalità coinvolge anche la sfera privata e soggettiva, la propria voce e le voci che tratteniamo, che sono inscritte nella nostra memoria e nell’ immaginazione. Da questa semplice osservazione nasce l’idea di intraprendere una indagine del tutto libera da schemi “sociologici” o da intenti scientifici ( comprovare una tesi, etc.). Semplicemente chiedere alle persone che abbiamo intorno di soffermarsi a pensare: quali sono le voci di cui conservo una memoria, che riesco a riascoltare? Come potrei descriverle?
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Gruppo Acusma, V. Valentini, M. Reggio, M. Petruzziello, W. Paradiso, Ora non hai più paura – Domande del Gruppo àcusma
Ora non hai più paura  e il contesto del lavoro di Valdoca

1. Lo spettacolo Ora non hai più paura fa parte della Trilogia della gioia. Quando siete andati a comporre la partitura vi è stato richiesto di attenervi al tema? E allora quali sono i suoni che esprimono gioia, secondo voi? Da quale tipo di qualità sono caratterizzati? Esiste un “timbro” della gioia o un “suono” della gioia? (M.P.)
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F. Kennedy, The Challenge of Theorizing the Voice in Performance
Voice is a challenge, however we think about it, probably because we don’t think about it very much at all. We use and abuse our voices, joyfully and fretfully, all through our lives without giving them any attention unless there is a problem. We hear voices and obey or reject what we think we perceive without a moment’s thought on the nature of the voice itself, the sound that resonates in our bodies so lightly yet so deeply. When the voice is called upon to fulfil tasks of an extraordinary nature, such as performing a text in a live performance, thinking about its function, its manner, its style, or its health becomes not only significant but essential. It is not enough to train the voice; nor is it enough merely to acknowledge its existence: a theoretical understanding of voice, its nature, and its function is crucial to thinking
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T. Mc Allister-Viler, Reconsidering the Role of Breath in Training Actors’ Voices: Insights from Dahnjeon Breathing and the Phenomena of Breath
Throughout 2007–08, UK and US voice trainers and practitioners have been revisiting the role of breath in training performers’ voices. At several different international conferences hosted by major voice organizations, workshops and presentations suggested an increased interest among voice practitioners in combining Western voice with Asian principles and practices.
Link

L. Mills, When the Voice Itself Is Image
Abstract This article explores a notion of “vocal image” understood as the generating of or presence of vocalized sound intended to form an acoustic image either linked to language or independent of language. Vocal image is considered, here, from a very particular space: the space of performance practice. It is suggested that the actor’s resistance to a playful exploration of sound in the abstract or within language has its roots in the layers of reasonableness inherent in language and in a concept of character as person. This resistance arguably inhibits a dimension of vocal creativity as well as possible vocal access to the articulation of the various texts of postdramatic theatre. In response, Julia Kristeva’s identification of the semiotic and chora provide the basis for a theorizing of an intertextuality of voice that references a dimension of sound play already evident in the theatre and performance practices of experimental theatre.
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E. Montanari, Dismisura
Non ci può essere nessuna domanda sulla voce.  La voce stessa è una domanda: materia che ci trascende. Non ho mai scritto niente di specifico sulla voce. La voce è un insieme, può essere a volte la guida dell’insieme, ma non può prescindere da esso, dal suono interiore del corpo che a sua volta è dentro al suono. Il suono esiste già, è indipendente da noi e siamo noi. Che immagine possiamo dare alla voce quando impressiona la nostra carne? A cosa siamo dentro? Non è difficile costruire un’immagine, e poi guardarla, quando se ne fa esperienza. Quando una voce ci attraversa, quella di un attore, di un cantante o anche di una persona che ci parla, spesso ne cogliamo la vibrazione ed è a quella vibrazione, a quell’autentico che tendiamo. La vibrazione ci modifica.
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E. Montanari, E mi paes
Non ho pronuncia né dizione per la parola patria. Una parola abisso, stonata e stridente. “E mi paes”, ecco cosa dico, che allo stesso tempo indica il minuscolo villaggio dove abito e la nazione che lo contempla. “Il mio paese”, l’immagine è larga, affettiva e concreta. Con la nonna piantavamo le calle nei fossi, “quelli non sono di nessuno, dividono il nostro campo da quello del vicino”. Quei fiori bianchi li coltivavamo per bellezza, per lo stesso vento.
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E. Montanari, OGGETTI D’INFANZIA – Cancello
Da piccola, durante i mesi estivi, la grande aia della nostra casa veniva allestita per accogliere i numerosi braccianti che lavoravano i campi sotto la direzione del mio nonno paterno. Mangiavano in fretta seduti su cassette da frutta all’ombra degli alberi di noce, si sdraiavano per un breve riposo sull’erba o sulle stuoie di canna sparse qua e là per poi tornare presto alle loro faccende faticose. Nella calura del mezzogiorno accompagnavo spesso la nonna al limite dell’aia che si affacciava sui campi, per chiamare a raccolta i braccianti, e per aiutarla a portare i fiaschi colmi d’acqua e vino freschi. Una grande apertura delimitata da pioppi secolari separava la corte dalle terre coltivate.
ermanna-montanari-oggetti-dinfanzia-cancello-2012

E. Montanari, Campiano
F. Nicolodi, Note sul teatro di Luciano Berio
FIAMMA NICOLODI “Note sul teatro di Luciano Berio”
GIUSEPPE BARTOLUCCI “Il linguaggio del presente”
RAIMONDO GUARINO “Lo spazio del dire. Cortigiani, umanisti, volontà di teatro e sistema della commedia”
ANNA MARIA PEDULLA’ “Serve la semiotica al pensiero teatrale?”

M. Petruzziello, Conversazione di Mauro Petruzziello con Fibre Parallele
Fibre Parallele sono Licia Lanera e Riccardo Spagnulo. Per loro stessa ammissione, Licia Lanera rappresenta l’anima barbarica del duo, mentre Riccardo Spagnulo quella razionale. La compagnia nasce a Bari nel 2005. Nel 2007 debuttano con lo spettacolo Mangiami l’anima e poi sputala. I loro successivi spettacoli, 2.(Due) e Fure de sanghe – Emorragia cerebrale, sospesi tra iperrealismo e dimensione straniante, circuitano nei teatri e nei festival sia in Italia che all’estero. Nel 2011 mettono in scena Have I None di Edward Bond per la rassegna TREND, dedicata alla drammaturgia contemporanea inglese e diretta da Rodolfo Di Giammarco. Nello stesso anno debuttano con Duramadre, sorta di leopardiana operetta morale dal respiro metafisico
fibre-parallele-intervista-mauro-petruzziello

M. Petruzziello, Conversazione di Mauro Petruzziello e Enrico Castellani – Babilonia Teatri
Conversazione di Mauro Petruzziello e Enrico Castellani – Babilonia Teatri – 25 gennaio 2013

Babilonia Teatri nasce nel 2006 dall’incontro fra Enrico Castellani e Valeria Raimondi. Il loro primo lavoro, Panopticon Frankestein (2006) è stato finalista al Premio Scenario Infanzia. Gli spettacoli successivi, fra i quali Underwork (2007); Made In Italy (2007), vincitore del Premio Scenario; Pornobboy (2009), accanto a una serie di suoni che arrivano direttamente dall’orizzonte della musica pop, mettono in scena una parola detta in modo stentoreo, ritmico e apparentemente privo di coloriture, che diviene cifra stilistica della compagnia. Con The End (2011), feroce riflessione sulla morte affidata alla sola voce di Valeria Raimondi, e il suo successivo spin-off The Rerum Natura, Babilonia Teatri inizia una riflessione più profonda sul dire, pur non negando una continua tensione all’orizzonte pop. Il loro ultimo spettacolo, Pinocchio (2012), vede in scena tre “non-attori”, tutti usciti dall’esperienza del coma. Il loro prossimo lavoro, che debutterà al Napoli Teatro Festival 2013, sarà una personale rilettura del romanzo Lolita di Nabokov.
mauro-petruzziello-convesazione-enrico-castellani-babilonia-teatri-2013


M. Petruzziello, Sovrascrivere le immagini. Conversazione con Daniel Blanga Gubbay – Pathosformel
Daniel Blanga Gubbay e Paola Villani si incontrano allo IUAV di Venezia e fondano i Pathosformel nel 2004. Sin dai primi due primi spettacoli, Volta e La timidezza delle ossa, il loro lavoro ha costantemente messo in discussione il concetto di presenza del corpo umano in scena. Dal 2007 i Pathosformel  sono sostenuti dalla factory Centrale Fies e dal 2011 fanno parte del network apap
mauro-petruzziello-sovrascrivere-immagini-pathosformel

G. Piana, Filosofia della musica
INTRODUZIONE
Non possiamo fare a meno di notarlo: la musica del nostro secolo che così spesso ha meritato e vantato, secondo le più varie formulazioni e accentuazioni, soprattutto il suo essere nuova è ormai diventata, nell’ineluttabilità del tempo che passa, la musica di un secolo che ora volge al suo termine. Fra non più di una decina d’anni avremo tutti i diritti di rivolgerci ad essa con quel senso di passato che viene realmente avvertito forse soltanto quando possiamo parlare riferendoci al secolo scorso, per quanto un simile schema temporale possa essere ritenuto arbitrario e irrilevante.
Ma richiamare l’attenzione su questa circostanza non vuole affatto essere la premessa, peraltro inconsistente, per un discorso sull’invecchiamento, ma al contrario per fissare questa novità come una delle caratteristiche interne della musica novecentesca. Di essa è del resto possibile fornire un’interpretazione che ha ben poco a che vedere con la dimensione puramente temporale, con l’avvicendarsi del vecchio al nuovo.
Gettiamo dunque uno sguardo d’insieme, già installati nel secolo appena futuro, alla musica del secolo XX. E allora avremmo forse ragione di notare: al di là della grande complessità intrinseca delle vie intraprese, della differenza dei progetti e dei pensieri che stanno alla loro base, vi sono certamente tratti comuni che in qualche modo sono in grado di tipicizzare la vicenda musicale novecentesca, ed a questo proposito proprio il parlare di novità coglie nel segno.
Tuttavia occorre subito precisare: parlando di novità come una caratteristica della musica novecentesca, non vogliamo semplicemente ribadire ciò che essa ha continuato a dire ed a ridire di se stessa, ma vogliamo piuttosto, e qui naturalmente i termini e il senso del problema mutano profondamente, cogliere un atteggiamento verso il nuovo come un atteggiamento peculiare, che caratterizza la musicalità novecentesca, il modo d’essere del Novecento nella musica e per la musica.
Certo, siamo consapevoli di come sia arrischiata già la stessa pretesa di rintracciare qualcosa di simile a dei tratti caratteristici e come si possa, nel tentare di soddisfare questa pretesa, pervenire a formulazioni che possono apparire astratte e ben poco significative. Eppure abbiamo la sensazione che, annoverando tra essi l’atteggiamento verso il nuovo, non si abbia a che fare con una vuota generalità, ma con uno dei punti di vista che possono essere utilmente assunti per vedere da una diversa angolatura cose mille volte già viste, cominciando a scorgere problemi ricchi di senso e difficoltà inavvertite.
Intanto dobbiamo essere in grado di afferrare tutto ciò che si chiama realmente in causa chiamando in causa il nuovo è nuovo ciò che non appartiene alla cerchia delle cose familiari e note, andare verso il nuovo significa in qualche modo allontanarsi da casa, addentrarsi in un paese straniero. Novità vuol dire dunque anche estraneità, differenza, sradicamento e viaggio. Perciò non è affatto interessante chiedersi se e quando vi sia stata novità nella musica novecentesca, domanda che diventerebbe forse ben presto oziosa, quanto riconoscere in essa un’esigenza fondamentale che la caratterizza in profondità. Ovunque, nelle più diverse e diversamente motivate proposte musicali, sembra potersi applicare l’immagine di un cerchio come delineazione di un confine che deve essere oltrepassato. Ovunque si scorgono limitazioni, barriere che ci stringono da ogni parte e che esigono di essere superate, e proprio in esse consiste il vecchio a cui si contrappone il nuovo, nell’abbattimento di queste barriere consiste soprattutto l’innovazione.
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M. Righetti, MEMORIA VOCALE. Le voci che ricordo
Quali sono le voci che ricordi? Quelle che sono rimaste nel tua mente come memoria e immaginario…
Puoi descriverne le proprietà? Non importa se siano vere.

Pensare, studiare, dar rilievo alla vocalità  coinvolge anche la sfera privata e soggettiva, la propria voce e le voci che tratteniamo, che sono inscritte nella nostra memoria e nell’ immaginazione. Da questa semplice osservazione nasce l’idea di intraprendere una indagine del tutto libera da schemi “sociologici” o da intenti scientifici ( comprovare una tesi, etc.). Semplicemente  chiedere alle persone  che abbiamo intorno di soffermarsi a pensare: quali sono le voci  di cui conservo una memoria, che riesco a riascoltare? Come potrei descriverle?
marisa-righetti-voci-che-ridono

R. Savo, MEMORIA VOCALE. Voce di una nonna
Quali sono le voci che ricordi? Quelle che sono rimaste nel tua mente come memoria e immaginario…
Puoi descriverne le proprietà? Non importa se siano vere.

Pensare, studiare, dar rilievo alla vocalità coinvolge anche la sfera privata e soggettiva, la propria voce e le voci che tratteniamo, che sono inscritte nella nostra memoria e nell’ immaginazione. Da questa semplice osservazione nasce l’idea di intraprendere una indagine del tutto libera da schemi “sociologici” o da intenti scientifici ( comprovare una tesi, etc.). Semplicemente chiedere alle persone che abbiamo intorno di soffermarsi a pensare: quali sono le voci di cui conservo una memoria, che riesco a riascoltare? Come potrei descriverle?
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S. Sontag, The aesthetics of silence
Every era has to reinvent the project of “spirituality” for itself. (Spirituality = plans,terminologies, ideas of deportment aimed at the resolution of painful structural contradictions inherent in the human situation, at the completion of human consciousness, at transcendence.) In the modern era, one of the most active metaphors for the spiritual project is “art.”
The activities of the painter, the musician, the poet, the dancer et al, once they were grouped together under that generic name (a relatively recent move), have proved to be a peculiarly adaptable site on which to stage the formal dramas besetting consciousness, each individual work of art being a more or less astute paradigm for regulating or  reconciling these contradictions. Of course, the site needs continual refurbishing. Whatever goal is set.
The scene changes to an empty room. Rimbaud has gone to Abyssinia to make his fortune in the slave trade. Wittgenstein has first chosen schoolteaching, then menial work as a hospital orderly.  Duchamp has turned to  chess. And, accompanying these exemplary renunciations of a vocation, each man has declared that he considers his previous achievements in poetry. philosophy, or art as trifling, of no importance. But the choice of permanent silence doesn’t negate their work. On the contrary, it imparts retroactively an added power and authority to what was broken off; disavowal  of the work becoming a new source of its validity, a certificate of unchallengeable seriousness. That seriousness consists in not regarding art (or philosophy practiced as an art form: Wittgenstein) as something whose seriousness lasts forever, an “end,” a permanent vehicle for spiritual ambition. The truly serious attitude is one that regards art as a “means” to something that can perhaps be achieved only by abandoning art; judged more impatiently, art is a false way or (the word of the Dada artist Jacques Vaché) a stupidity.
Though no longer a confession, art is more than ever a deliverance, an exercise in asceticism. Through it, the artist becomes purified — of himself and, eventually, of his art, The artist (if not art itself) is still engaged in a progress toward “the good.” But formerly, the artist’s good was mastery of and fulfillment in his art. Now it’s suggested that the highest good for the artist is to reach that point where those goals of excellence become insignificant to him, emotionally and ethically, and he is more satisfied by being silent than by finding a voice in art.  Silence in this sense, as termination, proposes a mood of ultimacy antithetical to the mood informing the self-conscious artist’s traditional serious use of silence: as a zone of meditation, preparation for spiritual ripening, an ordeal which ends in gaining the right to speak. (Cf. Valery, Rilke) So far as he is serious, the artist is continually tempted to sever the dialogue he has with an audience.
Silence is the furthest extension of that reluctance to communicate, that ambivalence about making contact with the audience which is a leading motif of modern art, with its tireless commitment to the “new” and/or the “esoteric” Silence is the artist’s ultimate other-worldly gesture; by silence, he frees himself from servile bondage to the world, which appears as patron, client, audience, antagonist, arbiter, and distorter of his work.
Still, in this renunciation of “society,” one cannot fail to perceive a highly social gesture. Some of the cues for the artist’s eventual liberation from the need to practice his vocation come from observing his fellow artists and measuring himself against them. An exemplary decision of this sort can be made only after the artist has demonstrated that he possesses genius and exercised that genius authoritatively. Having already surpassed his peers, by the standards which he acknowledges, pride has only one place left to go. For, to be a victim of the craving for silence is to be, in still a further sense, superior to everyone else. It suggests that the artist has had the wit to ask more questions than other people, as well as that he possesses stronger nerves and higher standards of excellence. (That the artist can persevere in the interrogation of his art until he or it is exhausted isn’t in doubt. As René Char has written, “No bird has the heart to sing in a thicket of questions”)
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V. Valentini, La voce scomparsa: la recitazione di Eleonora Duse nelle tragedie di Gabriele D’Annunzio
La voce di Anna e di Francesca

Proviamo a raccogliere tracce e indizi che ci permettano di formarci un’idea sulla vocalità di un’attrice come Eleonora Duse, in un periodo circoscritto alle sue interpretazioni dannunziane. La loro messa in scena rappresenta un punto di crisi nell’assetto del teatro italiano di fine Ottocento, un’apertura verso le avanguardie europee, un tentativo di ripensare il sistema dei ruoli e, in particolare, una trasformazione radicale della recitazione dell’attrice.
Non disponendo di documenti sonori, oltre ai documenti diretti, come i copioni annotati dall’attrice, e indiretti (recensioni e testimonianze che riguardano le performance vocali della Duse dannunziana), fondamentale è inscrivere la vocalità dell’attrice in un quadro di raffronti più ampio: confrontare le prescrizioni dei trattati di recitazione dell’epoca, le teorie elaborate su tali questioni in ambito filosofico, linguistico, musicale, antropologico, a partire dal testo drammatico, analizzando le parti dialogiche-discorsive, oltre che le didascalie, un territorio certamente più familiare agli studiosi di teatro.
Potremmo scoprire quanto spazio occupa il tema della voce nelle pagine dedicate all’attrice dai suoi biografi, recensori di professione, da chi l’ha conosciuta in scena e ha lasciato una testimonianza della sua arte di attrice. Come è stata immaginata e descritta la voce dei personaggi femminili nei testi su di lei modellizzati (le tragedie dannunziane). Quali indicazioni sul ritmo e sulla scansione emergono dai copioni di scena annotati dall’attrice. In che modo i letterati, i poeti (tra gli altri, D’Annunzio, Hoffmansthal, Rilke), i musicisti, le nuove teorie estetiche, in quegli stessi anni affrontavano il tema della vocalità.
Siamo tuttavia consapevoli dei limiti che una tale indagine presenta: dal copione di Francesca da Rimini annotato dalla Duse si evincono il ritmo delle frasi e gli accenti, ma non siamo in grado di attingere ai tratti specifici della sua vocalità o ai modi dell’articolazione fonetica. Né riusciamo ad afferrare il rapporto fra gestualità e vocalità, né a capire in che rapporto sta la voce con il personaggio o di distinguere la voce di Francesca da quella di Anna. Le didascalie punteggiano e descrivono i toni in rapporto allo stato emotivo del personaggio, scandiscono le pause e i silenzi, ma non possiamo verificare se e in che modo queste prescrizioni siano state ottemperate, né attingere alle qualità della materia sonora vera e propria (che ha a che fare con altezza, timbro, intensità, volume). Non siamo in grado di scoprire come viene prodotta la voce (attraverso la gola, il diaframma), l’articolazione fonetica (il rapporto vocale-consonante, l’apertura o chiusura delle vocali, la scansione delle consonanti, la discontinuità e la fluidità del dire, i tratti sovrasegmentali). Nonostante questi limiti, confidiamo che l’analisi sul registro vocale apporti  nuovi elementi alla conoscenza di Eleonora Duse, interprete dannunziana.
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V. Valentini, M. Reggio, I. Vinella, Domande per Marco Cavalcoli su 'HIM' dei Fanny & Alexander
La figura di Hitler, in ginocchio come nella scultura di Maurizio Cattelan, ha in mano una bacchetta da direttore d’orchestra. Perché? Si vuole identificare in Hitler l’autore del film?
Il nostro Mago di Oz ha le sembianze di Hitler, specialmente del piccolo Hitler inginocchiato raffigurato da Maurizio Cattelan nella sua opera Him. Tanto nei libri di Baum, quanto nel film di Fleming, il Mago è una figura ambigua, ingannatrice, un ciarlatano che, una volta smascherato, pretende di essere un buon uomo e un cattivo mago; ma che non ha esitato a mandare Dorothy e i suoi amici in una missione da lui creduta impossibile e mortale, l’uccisione della Strega dell’Ovest. Il nostro Hitler, come il Mago di Oz, suscita simpatia e qualche sorriso, così come suscita compassione l’Him di Cattelan finché non se ne scopre il volto hitleriano. Ed è con simpatia che lancia il suo incantesimo sugli astanti, comandandoli a bacchetta da vero autocrate, mentre si arroga il diritto di soppiantare tutti i personaggi in commedia in un’impossibile bulimia ventriloqua.
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V. Valentini, M. Petruzziello, I. Vinella, Conversazione di Julia Varley
Julia Varley è un’attrice inglese che lavora anche come regista e pedagoga. Dal 1976 fa parte dell’Odin Teatret. Ha preso parte a numerosi spettacoli del gruppo e dal 1990 lavora con l’ISTA (International School Of Theatre Antropology) e con l’Università del Teatro Euroasiano, entrambe dirette da Eugenio Barba. Sin dall’inizio, nel 1986, fa parte del Magdalena Project, network di donne del teatro contemporaneo. Ha pubblicato due libri: Vento ad Ovest. Romanzo di un personaggio (Odin Teatret Forlag, 1996) e Pietre d’acqua. Taccuino di un’attrice dell’Odin Teatret (Ubulibri, 2006). Incontriamo Julia dopo una replica de L’eco del silenzio, sua dimostrazione-spettacolo sulla voce e sull’interpretazione del testo
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V. Valentini, Intervista a Cesare Ronconi
Roma 1 novembre 2012 con integrazioni di Romina Marciante
1 Mi interessa conoscere la fisionomia di chi compone/produce il suono negli / per gli spettacoli della Valdoca, le varie figure con cui hai lavorato sul suono.
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V. Valentini, Franco Scaldati
INDICE
Presentazione di Valentina Valentini  p. 7
Lucio  di Franco Scaldati  p.11
La locanda degli elfi, conversazione con Franco Scaldati, di Valentina Valentini  p.117
Ritratti  p.119
Angeli e assassini di Giuseppe Bartolucci  p.141
Alla ricerca del cuore di Francesco Pititto  p. 143
Calcinacci Minestici di Antonio Barbieri   p. 145
Il giardino incantato: oltre la solarità e il lutto. Intorno alla drammaturgia di Franco Scaldati di Valentina Valentini  p. 149
Teatrografia
Bigliografia
Videofilmografia
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V. Valentini, Far suonare le fiamme
Lo spettacolo di Chiara Guidi, La bambina dei fiammiferi, si inscrive nel genere teatro per l’infanzia, in realtà la destinazione è intergenerazionale, come tutti gli spettacoli pensati per i bambini che hanno una qualità artistica! E sul rapporto fra infanzia e teatro, Chiara Guidi lavora da anni, non solo attraverso specifici spettacoli conosciuti internazionalmente – da Hansel e Gretel a Buchettino, – attraverso un festival, Puerilia, la scuola di teatro per bambini, ma organicamente, nella sua pratica artistica. Il rapporto fra infanzia e teatro sta nella sua ricerca di uno spazio scenico in cui voce, musica, parola siano altrettanto plastici, vibranti, fatti di chiaroscuri, di ombre e di luce. Un teatro che si alimenti di infanzia significa pensare come i bambini che tutto è animato.
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V. Valentini, Dimore dei suoni. Appunti dal laboratorio di drammaturgia sonora
La quinta edizione del laboratorio di Drammaturgia sonora, promosso da Valentina Valentini, si è articolata (dal 30 aprile al 16 maggio 2014) in alcune lezioni-spettacolo condotte da Hubert Westekemper – Creare spazi sonori, Alvin Curran – The World is My Mother Tongue, e Luigi Ceccarelli – Appunti per un teatro musicale.
I musicisti-compositori e sound-designer hanno attraversato le drammaturgie sonore di spettacoli, performance, installazioni realizzate all’interno della propria produzione grazie alle sollecitazioni e alle domande di Mauro Petruzziello, Ida Vinella, Romina Marciante, Cristina Reggio del Gruppo Acusma.

La paziente e feconda rielaborazione degli interventi live degli ospiti trova qui una forma mista, da leggere e ascoltare nello stesso tempo.
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I. Vinella, Il respiro che viene suonato – Intervista a Roberto Latini
Ida Vinella.  Inizierei da una questione precisa che è poi quella che sto affrontando: la voce. Partirei in questo senso dal chiederti che tipo di peso ha la voce nella composizione dei tuoi lavori.
Roberto.Latini.  Ha un peso fondamentale nella misura in cui penso che la voce sia respiro che viene suonato e quindi la possibilità di interpretare e di vivere questi suoni aldilà del senso, oltre il senso e anche a prescindere dal senso. Considerarlo come suono è una condizione fondamentale.
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B. Viola, The Sound of One Line Scanning
Our greatest blessings come to us by way of madness.
Socrates

The ancient Greeks heard voices. The Homeric epics are full of instances of people guided in their thoughts and actions by an internal voice to which they respond automatically. This suggests as people, as Julian Jaynes has pointed out, not fully exercising what we would consider free will or rational judgment. As with most of us, there is a conversation going on in their heads, but it is not with themselves. Jaynes calls this distant mental landscape the ‘bicameral mind,’ and claims that, prior to the transition period of the Greeks, all ancient cultures were not fully conscious as we know it. In other words, they possessed many gods. Today we are suspicious of persons exhibiting such behaviors, forgetting that the term hearing refers to a kind of ‘obedience’ (the Latin roots of the word are ob plus audire, or ‘to hear facing someone’). So rooted is our need for the concept of the independent mind, that we categorize those hearing the voices as: a) mildly amusing, b) a pet, or c) confined to a mental institution. A possible fourth category might be ‘watching television.’ The prophets and gods have departed our world and the confused chatter in their wake must now be exorcized by someone called a “therapist.”

A woman named Be was alone in the bush one day in Namibia, when she saw a  herd of giraffes running before an approaching thunderstorm. The rolling beat of  their hooves grew louder and mingles in her head with the sound of sudden rain. Suddenly a song she had never heard before came to her and she began to sing. Gauwa (the great god) told her it was a medicine song. Be went home and taught the song to her husband Tike. They sang and danced it together. And it was, indeed, a song for trancing, a medicine song. Tike taught it to others who passed it on.
!Kung Bushman story from Botswana, 
as told to Marguerite Anne Biesele.

Consciously or unconsciously, most people assume the existence of some sort of space when discussing mental functioning. Concepts and terms for manipulation of solid objects are constantly used to describe thoughts, as in “the back of my mind,” “grasp an idea,” “over my head,” “cling to beliefs,” “a mental block,” and so on. This mental space is directly analogous to the “data space” in our first brain child, the computer, being the field in which calculations occur and where the virtual objects of digital graphics are created, manipulated and destroyed. Like a fundamental ontology, this given space is perpetually before or after what is done, an a priori existence from birth in the flip of a switch until the lights finally go out. If there is a space of thinking, either real or virtual, then within it there must also be sound, forall sound seeks its expression as vibration in the medium of space. The acoustic properties of this space, then, becomes the subject of this article.
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